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Home Sweet Home. Leggi Io resto a casa.

Abbiamo guardato la prima e unica stagione di “Freud” su Netflix e non entro in merito a quel che lo riguarda direttamente, non ho mai veramente approfondito dopo quel poco che si studia a scuola. Tuttavia prendo un’immagine che è venuta fuori nelle sue riflessioni nella serie, ovvero il descrivere il nostro essere come una casa, con piccole luci qua e là e il resto al buio, ovvero l’inconscio.

Ero lì che pensavo a come rappresenterei questa casa e, seppur sia ragionevole pensarci con tante stanze, per il semplice fatto che continuamo a scoprirci e quindi c’è sempre una nuova porta da aprire e oltrepassare, ci sono dei momenti dove penso di essere più un grande, caoticissimo open space, dove le cose non hanno esattamente un ordine apparente. L’idea delle stanze mi aiuta a compartimentalizzare alcuni aspetti, come per esempio la paura, o sogni inesplorati, lo stanzino dove vuoi seppellire ricordi spiacevoli o le cose che non riesci a risolvere. Deve esserci da qualche parte anche la stanza degli enigmi, quei rompicapi che tormentano e che prima o poi finiscono nel dimenticatoio, perché risolti o perché irrisolvibili… Avere delle stanze insomma fornisce già una struttura, un ordine che non sempre c’é, consapevole o meno. Per comprendere quello che non conosciamo ancora tendiamo a suddividerlo in frammenti più piccoli, più commestibili, gestibili. Poi troviamo collegamenti, aggiungiamo, allarghiamo, spingiamo i muri, li abbattiamo, chiudiamo porte, apriamo finestre, facciamo entrare aria, ridipingiamo quello che non ci piace, quello che va cambiato, spostiamo mobili, e non sempre, seppur utile, rimuoviamo ragnatele.

Più ci penso più questa casa non ha solo tante stanze, ma anche tanti piani. Ma siamo noi che la complichiamo o è effettivamente complessa? Il nostro essere è sicuramente tutt’altro che banale e quando le cose scappano di mano e diventano complicate, forse è il caso di semplificare.

Immaginate di essere in una stanza vuota, con quattro pareti, pavimento e soffitto. Cosa c’è?
È l’inizio di un mio laboratorio sperimentale “Tira fuori il bimbo che c’è in te” e un po’ tutti rispondono “Niente. È vuota!”
Immaginate ora di aprire una finestra su un lato. Facendo entrare un po’ di luce cominciano a crearsi giochi di luci e ombre che proiettano disegni strani sulle altre pareti. Cosa c’è ora? Cosa vedete?

Ricordo una sera da bambina, condividevo ancora la stanza con mio fratello. Il mio letto era vicino alla porta e posizionavo l’anta in una posizione tale per cui potessi vedere la luce della sala attraverso il corridoio. Nell’angolo opposto ricordo un luccichio. Quella sera ero convinta che qualcuno si fosse nascosto nel bidone dei palloni in attesa che ci addormentassimo. Anni dopo ho capito che il luccichio non era l’occhio di un ladro, ma il riflesso delle luci delle auto di passaggio attraverso la persiana sulla banda dorata del bidone. Quella sera però ho avuto paura. E mi è rimasta finché la ragione mi ha saputo spiegare l’inspiegabile di allora. Oltre all’impossibilità di un adulto di stare dentro un bidone così piccolo.
Quello che c’è e quello che vediamo non sono sempre la stessa cosa.

Basta un po’ di luce per svelare i segreti del buio. Le ombre possono dare forma alle nostre paure, ma la luce sa far prendere una piega diversa alle cose. Ti fa trovare quello che cercavi, ti fa scoprire quello che non cercavi, ridefinisce confini, annulla i poteri dei mostri che tutto sommato non ci sono, ma è quando cambiamo gli occhi con cui guardiamo le stesse cose che tutto prende una forma diversa.

Tornando da uno dei miei viaggi, anni fa, ero così stanca che ho fatto il tragitto dall’aeroporto verso casa sdraiata sul sedile di dietro dell’auto di mio papà, che carinissimo mi era venuto a prendere. Ricordo di aver avuto la sensazione di essere in una nuova città. Sono passata per le solite vie, ma invece di guardarle da pedone, con un raggio visivo dal marciapiede al primo piano e, forse, qualche sbirciata qua e là più su, guardavo quegli stessi palazzi dalla loro metà in su. E non ne riconobbi uno.

Non ditemi che non vi è mai capitato di essere passati mille volte nello stesso posto, la casa di un amico, l’androne dell’ufficio, la fermata dell’autobus e ritrovarvi a chiedere se quell’elemento fosse nuovo e sentirvi dire che c’è sempre stato. Abbiamo una visione selettiva e definita da chissà quali e quanti fattori, siano semplicemente la fretta, che ti fa focalizzare solo sul raggiungere il posto dove devi andare prima possibile, o l’interesse selettivo (sto ascoltando la musica o sto leggendo un libro), o guardo i passanti, ma non quello che ci sta dietro, o la distrazione, la testa su altre cose, la routine.

Se penso a certi personaggi e penso alla loro casa interiore, probabilmente devono imparare ad abbattere qualche muro per veramente scoprire che c’è di più in loro. Altri forse hanno bisogno di fare un po’ di ordine, altri pulizia. Altri stanno così bene nel loro non sapere o non frega niente di svegliare il can che dorme, sia esso il bimbo assopito in loro o il grande eroe della propria vita, che preferiscono non smuovere nulla, semplicemente non pensarci. Altri più che case sono fortificazioni inespugnabili o prigioni con segrete profonde, piene di draghi e troll e preferiscono nutrire quelli, lasciando le parti più tenebrose prevalere sulle altre.

Se penso tuttavia a casa mia, che tende facilmente al disordine sparso, non potendo traslocare il proprio essere interiore, forse forse, val la pena fare un po’ di attenzione a quello che c’abbiamo dentro.
Io resto a casa. Teniamola bene.

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