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Spaghettificazione

Oggi ho scoperto questo termine: spaghettificazione.

Ho subito pensato a “quel fenomeno per cui arrivi dritto e sparato per poi ammorbidirti e adattarti con fluidità”, pensando, per immediatezza, a quando metto gli spaghetti nell’acqua bollente e li vedo afflosciarsi e cambiare forma da rigida verso quella bellezza culinaria cui tutti gli italiani sono familiari.

Ecco. Questa italianità è quell’elemento che non mi ha nemmeno fatto pensare allo spaghetto preso singolarmente prima ancora di essere cotto. Ho subito visto il piatto pronto e fumante.

Marco ha subito pensato invece al codice di programmazione con cui ha a che fare quotidianamente, e dunque alle istruzioni scritte alla rinfusa.

Mio marito ha ironizzato sul processo di spaghettizzazione dei film verso il genere a lui tanto caro dei spaghetti western.

Il termine fa riferimento invece a un fenomeno astrofisico di una massa che si avvicina a un buco nero, per il quale tale massa, a causa delle forze esercitate dal buco nero (più forti in sua prossimità), si allunga verticalmente e si schiaccia orizzontalmente per cui diventa lungo come uno spaghetto.

Trovo affascinante come la stessa etichetta assuma connotazioni diverse a seconda degli occhi di chi le guarda. Siamo tutti frullati di influenze consapevoli o meno di valori e aspirazioni personali, bagagli familiari, insegnamenti scolastici, modalità sociali, contesti culturali, esperienze variegate, storia – mia tua sua loro di altri che c’erano ci sono di adesso ieri anni fa.

Etichettare è una necessità, si associano suoni a significati da sempre, per comunicare con gli altri nel tentativo di intendersi.

Ci sono dei momenti dove queste etichette diventano un limite. Un marchio. Una condanna senza uscita. Uno scoraggiamento. Un’incomprensione.

Che nerd che sei.

Sei la solita rompiscatole.

Quel fannullone di tuo figlio.

Ho la sindrome dell’impostore.

Sono proprio un’incapace. Non ne combino mai una giusta.

Ce ne diciamo tante. E le parole che usiamo hanno un peso. E col peso anche delle conseguenze, mentali, emotive, psicologiche, inevitabili.

Pochi giorni fa rimarcavo per l’ennesima volta la mia mancanza di costanza. Così è come l’ho definita molte volte. E spesso ho cercato di compensare facendo riferimento alla mia perseveranza, al cadere e rialzarmi, sì, riprendo e ricostruisco, mi fermo e ricomincio, infinite volte. Poi mi sono detta che non avevo bisogno di diventare costante (col peso della noia e della routine che toglie immediatamente creatività e varietà solo a pensarci), ma che piuttosto volevo continuità. Ho rietichettato la questione. Il peso che mi mettevo addosso all’improvviso è cambiato. Non si trattava più di quello che non facevo abbastanza, o abbastanza regolarmente, ma di mantenere fluidità nel tempo. Quel fermarmi e riprendere la stessa cosa come se ogni volta ricominciassi da capo è diventato un cammino che ho già cominciato e che non devo ricominicare ancora, è un mettere un piede dopo l’altro, non un rimettere lo stesso piede nello stesso punto.

Non so se cogliete l’impatto emotivo e motivazionale del rifare sempre il primo passo e del, invece, continuare a fare un passettino avanti.

Questo post è il primo dopo tanto tempo. Oppure è un nuovo post successivo al precedente che si adatta alle circostanze vissute in questi mesi e che si aggiunge. Non ho bisogno di fustigarmi e dirmene di cotte e di crude perché non ho scritto con regolarità e prima.

Le parole hanno dei significati, ma sono quelli che attribuiamo noi che hanno un impatto e una valenza su di noi.

Dire che sono pezzo di carbone da buttare non è la stessa cosa di dire che sono un diamante allo stato grezzo. Piccole sfumature possono fare la differenza (essere un catorcio e avere qualche acciacco non sono la stessa cosa!).

Il potere del rinominare le cose è sottile e travolgente.

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